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Data: 30/06/2007 - Anno: 13 - Numero: 2 - Pagina: 34 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

“COMU VOLA DDIU”

Letture: 1380               AUTORE: Giovanna Durante (Altri articoli dell'autore)        

La pietà popolare, espressione della presenza di Dio nella vita della Comunità calabrese, è cultura ed insieme messaggio degli umili, capace di trasmettere fede di generazione in generazione. Essa emerge dai proverbi, dalle poesie, dalle preghiere, dai canti religiosi ed anche dalle mille espressioni dialettali che potrebbero sembrare dei luoghi comuni ma sono, invece, valida testimonianza di una radicata fede cristiana.
“Si Ddiu vola” (Se dio vuole), “Comu vola Ddiu” (Come vuole Dio), “S’è destinàtu ’e Ddiu” (Se è destinato da Dio): in queste ed in altre espressioni, usate ancora oggi, emerge una totale fiducia in Dio e nella sua volontà sovrana. Dio, insomma, non solo è presente tra gli uomini ma ha anche l’arbitrio di intervenire, modificare e condizionare le vicende umane, come risulta da molti proverbi del tipo “Ddiu affrìggia e non abbandùna” (Dio affligge ma non abbandona), “U Signùri chjuda na porta e apra nu portùni” (Dio chiude una porta e apre un portone), “U Signùri doppu a piaga manda u nguentu” (Il Signore dopo la piaga manda l’unguento).
Nella cultura popolare calabrese esistono altri elementi condizionanti la vita, come la sorte, il destino o la sfortuna che vanno al di là della comprensione umana facendo pervenire a successi o insuccessi non voluti o non previsti dall’uomo. Destino e sfortuna, inserendosi nel dinamismo dell’attività umana facevano aleggiare quel senso di fatalismo passivo e rassegnato che ancora oggi condiziona talvolta la vita dei Calabresi, come si nota nei proverbi seguenti: “Cu’ nescia tundu on po’ morìra quatru” (Chi nasce tondo non può morire quadrato), “S’è destinàtu u mori ahru scuru a’ vogghja mu ti fai mastru candilàru” (Se è destinato che tu debba morire al buio è inutile che ti faccia fabbricante di candele), “Cu’ sbenturàtu nescia, peju mora” (Chi nasce sventurato morirà ancora peggio).
Dal fatalismo poteva nascere un senso di disperata impotenza che faceva esclamare: “Ahru peju non c’è fini” (Al peggio non c’è fine), oppure “U peju è arrèdi” (Il peggio deve ancora arrivare). Da qui alla conclusione amara e fatale il passo è breve, come si può notare anche dalla bella poesia di Mastro Bruno Pelaggi, noto poeta dialettale serrese, dal titolo “Lettera allu Patritièrnu” di cui riportiamo solo pochi versi sintomatici di malessere sociale e di tensione interiore: “Non bbidi, o Patritièrnu, lu mundu mu sdarrùpi, ch’è abbitàtu da lupi e piscicàni… Vidi com’hai mu fai, càcciandi di ’sti guai…” (Vedi un po’ tu, o Padreterno, di distruggere questo mondo abitato da lupi e pescecani… Vedi di fare qualcosa, tiraci fuori da questi guai).
La delusione per la sfortuna capitata a volte provocava tentativi di ribellione e di rivalsa: “Catti mbascia fortùna e nnon su’ mortu; / tegnu ferma sperànza e fedi in Ddiu, / e si la navi girerà a meu portu, / fazzu ciangìra ad attri e ridu eu.” (Sono caduto in bassa fortuna e non sono morto; / ho ferma speranza e fede in Dio, / e se la nave girerà verso il mio porto, / farò piangere altri e riderò io.) Nei versi precedenti quel che più colpisce è la convinzione intima e chiara nella fede in Dio, seppure inserita in un contesto aspro e vendicativo.
In molte zone della Calabria esistevano un tempo delle espressioni rituali connesse con i vari momenti della giornata, segno della presenza divina in seno alla famiglia e alla società in genere. I contadini, ad esempio, prima di mangiare si scoprivano il capo perché secondo un’antica credenza popolare fra i commensali vi era “l’àngiulu nginocchjùni”, e cioè un angelo inginocchiato; né si poteva rivoltare il pane dalla parte superiore per non offendere Cristo; e se cadeva per terra un tozzo di pane, nel raccattarlo bisognava baciarlo e fare il segno della Croce. Anche le briciole di pane che cadevano sulla tovaglia venivano religiosamente raccolte e mangiate, dopo il segno di Croce.
In alcuni luoghi si diceva come saluto: “Ddiu mu vi duna a forza” (Dio vi dia la forza); mentre alla donna, sia che impastasse il pane o che intrecciasse i capelli, si soleva dire: “Ddiu mu va criscia” (Dio vi faccia crescere la treccia, o faccia lievitare l’impasto del pane). Inoltre, quando si faceva l’elemosina ad un povero, questi ringraziava dicendo: “A Madònna (o Ddiu) vi renda mèritu” (La Madonna o Dio vi renda merito).
Nella cultura religiosa calabrese il rapporto uomo-Dio è stato sempre evidenziato e rafforzato dalla preghiera, intesa come comunicazione intima di amore e di lode al Padre Eterno o alla Madonna, oltre che esteriorizzato con le processioni per le vie del paese e con i vari riti religiosi in chiesa. Numerose preghiere e canti religiosi dialettali, tramandati dai nostri antenati, ancora oggi ci commuovono per la genuinità ed il candore dei sentimenti espressi, mentre ne esistono altri in cui la presenza di un Dio provvidente è messa in seria discussione. Basti pensare alle espressioni irridenti alla fiducia in Dio e alla Provvidenza divina che riscontriamo nei seguenti proverbi: “Ahru cavàhru magru Ddiu nci manda i muschi” (Al cavallo magro Dio manda le mosche), “Ddiu manda pana tostu a cu’ on ava i denti” (Dio manda il pane duro a chi non ha denti), “U Signùri provvìda u provvidùtu ca u pòvaru è mparàtu” (Il Signore provvede a chi è ricco perché il povero è già abituato alla miseria). Questo atteggiamento è sicuramente dovuto al fatto che l’uomo, da sempre dibattuto tra dubbi, difficoltà, facili entusiasmi e cocenti delusioni, tende a vedere le situazioni dolorose, le ingiustizie della vita o la stessa morte come mali provocati o come castighi voluti da un Dio creduto amico ma alla resa dei conti considerato ingiusto ed ingrato. Da qui la bestemmia come senso di contestazione e di rivolta verso ogni forma di divinità da parte dell’uomo che si ritiene capace di giudicare e di misurare col suo metro tutto e tutti.
Un tempo si bestemmiava con l’espressione “mannàja” che secondo Lombardi Satriani significherebbe “malanno abbia”; era questa una forma di maledizione rivolta al Signore, alla Madonna o ai Santi; pare invece che l’imprecazione rivolta al “Patatèrnu” (Padre Eterno) o a “Ddiu” fosse più frequente nel linguaggio femminile.
C’è comunque da considerare che le espressioni blasfeme, oggi come ieri, vengono spesso usate come semplici sfoghi di tensioni o di sentimenti che non toccano direttamente la sfera religiosa.
Vasta è la gamma dei sentimenti umani, così come varie sono le risposte che ciascuno di noi dà al senso della presenza di Dio nella propria vita; ciò che è sicuro è che qualsiasi protesta contro Dio non fa altro che rivelare la nostra debolezza, anzi la nostra nullità rispetto alla Sua grandezza incommensurabile e alla Sua trascendenza.


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